Anche Banca Monte dei Paschi di Siena e Mediocredito Centrale, controllate dallo Stato, hanno deciso di non pagare la tassa e di rafforzare le riserve.

La telenovela agostana del Governo e della cosiddetta tassa sugli extraprofitti bancari non ha avuto l’esito sperato dall’Esercutivo, ma anzi si è trasformata in uno degli atti più autolesionisti che siano stati mai concepiti da un’amministrazione pubblica. Nessuna delle banche finora ha deciso di pagare il balzello.

Tutte, come era ovvio che fosse, hanno deciso di appostare a riserva non disponibile una quota pari a 2,5 volte la tassa, come previsto dalla normativa. Il metro del fallimento è dato dalla decisione presa dalle due banche che oggi hanno un controllo pubblico, Monte dei Paschi di Siena e Mediocredito centrale, che incuranti dei desideri dell’azionista di maggioranza, hanno deciso di ingrassare le riserve.

Un’ipotesi di scuola

Secondo i calcoli effettuati dalla Fabi, il principale sindacato bancario italiano, i primi cinque istituti di credito del Paese hanno optato per l’accantonamento a riserva non distribuibile di complessivi 4,2 miliardi per il 2023. A fare da apripista è stata Unicredit, la prima a dichiarare che non avrebbe pagato la tassa.

Pensare che qualche banca potesse aderire al pagamento della tassa era più un’ipotesi di scuola che altro perché una scelta simile sarebbe stata impugnata da qualunque socio con la richiesta di un’azione di responsabilità per il Consiglio di amministrazione.

Stato attendeva 3-4 miliardi

Nelle dichiarazioni di agosto i rappresentanti dell’Esecutivo Meloni speravano di ricavare una cifra compresa fra 3 e 4 miliardi di euro dall’imposizione alle banche, in linea con quello che il governo spagnolo ha incassato dalle sette maggiori banche iberiche ad esisto però di un percorso che è stato integralmente condiviso dalle banche in piena trasparenza e dopo avere ottenuto il via libera sia dei legislatori interni sia da parte della Bce.

La decisione del governo italiano ha certamente ottenuto di fare perdere una decina di miliardi di capitalizzazione alle banche nei giorni a ridosso dell’annuncio. L’iniziativa, condotta senza il minimo stakeholder engagement, ha avuto sin dall’inizio delle caratteristiche di vaghezza e indeterminatezza che hanno dato una chiara sensazione di improvvisazione.

Basta pensare che la relazione tecnica di accompagnamento al provvedimento era priva, benché «in via prudenziale», della previsione di incasso. La decisione, così come annunciata ad agosto, ha accolto commenti profondamente negativi da parte della Bce. Come se non bastasse i tecnici del Senato avevano rilevato gravissimi indizi in merito ai possibili profili di incostituzionalità della norma.

Rischio beffa

I tecnici hanno inoltre rilevato che le tempistiche di legge avrebbero potuto rivelarsi una beffa nella beffa per l’Esecutivo. L’incostituzionalità, hanno spiegato, «potrebbe essere dichiarata dopo l’avvenuto introito e la conseguente spesa delle somme in questione, il che determinerebbe un peggioramento dei saldi, corrispondente alle risorse che dovessero essere restituite alle banche per effetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale».

Sullo sfondo rimane una figuraccia con i mercati di cui né il Paese né il Governo avevano bisogno. L’astensione di Mps e Mcc dal pagamento è stato il colpo finale per la reputazione di chi ha cercato di imporre questa tassa. Perché, alla fine, i detrattori hanno gioco facile nel dire che, nei fatti, la tassa sugli extraprofitti non l’ha pagata nemmeno lo Stato. Sipario.