Silvio Berlusconi è stato molto più che un underdog nel sistema finanziario italiano. Il rifiuto che i salotti buoni del potere finanziario italiano hanno avuto per il Cavaliere ha spesso assunto caratteri parossistici.
Dell'inviato Giuseppe Failla, pubblicista ed esperto economico di finewsticino.ch
I primi finanziamenti della sua carriera Silvio Berlusconi li ha ricevuti dalla Banca Rasini una piccola banca milanese nata negli anni ’50 dove lavorava, come impiegato, il padre del «Cavaliere» e di cui era stato procuratore pro tempore.
La storia vuole che l’intercessione del padre, che investì nel business del figlio anche gran parte della sua liquidazione, consentì al giovane Silvio di ottenere i capitali iniziali per costruire il suo impero. La banca, che fu toccata anche dallo scandalo del Banco Ambrosiano, assurse all’onore delle cronache nel 1983, per via dell’operazione San Valentino.
La polizia milanese effettuò una retata contro gli esponenti di cosa nostra a Milano, e tra gli arresti figurarono numerosi clienti della banca Rasini e che trai i correntisti miliardari della Rasini vi erano Totò Riina e Bernardo Provenzano. Il nesso causale fra i diversi eventi non è mai stato dimostrato né provato e questo è un fatto. Così come è un fatto che siano eventi non piacevoli.
Rifiutato dalle Generali
La porta in faccia più dolorosa e mortificante Berlusconi l’ha ricevuta da Cesare Merzagora, storico presidente della Assicurazioni Generali. Nel 1979 Berlusconi è già un imprenditore affermato nel settore delle costruzioni.
Per coronare il suo status chiede di entrare nel capitale della società triestina e, in prospettiva, si candida anche a un posto nel consiglio di amministrazione. Merzagora gli risponde con una missiva dai toni durissimi ancorché formalmente ineccepibili, divenuta famosa grazie al libro «Cesare Merzagora. Il presidente scomodo» di Paolo Varvaro e Nicola De Ianni.
Nella missiva di risposta Merzagora scrive: «sarei reticente se non le aggiungessi che il n ostro Consiglio non ha mai desiderato avere nel suo seno costruttori (...) inoltre lei sta diventando sempre più anche un grosso personaggio politico e infatti Lei ha offerto gentilmente a Randone il suo appoggio con i suoi eccellenti amici di Roma non pensando che a noi questi suoi rapporti non interessano e che anzi di essi facciamo volentieri a meno».
Mediobanca non volle quotare Mediaset
Mediobanca di fatto si rifiutò di quotare Mediaset nel 1996 lasciando il dossier a Banca Imi e Banca di Roma. La vicenda fu raccontata da Cesare Geronzi, allora dominus di Banco di Roma e consigliere di amministrazione di Mediobanca in un’intervista.
Parlando del viaggio fatto ad Arcore, dove risiedeva Berlusconi, da lui Enrico Cuccia, fondatore di Mediobanca e dal suo delfino Vincenzo Maranghi, Geronzi ricorda che «Berlusconi ci spiegò l'operazione in modo sintetico e preciso. Ma, appena la nostra macchina uscì dal cancello, Cuccia disse a me, che ero seduto dietro accanto a lui: «Questa operazione non si può fare». E perché? gli chiesi. «Perché i bilanci sono falsi, Le cifre di Berlusconi non sono vere, ma virtuali. Quanto vale un'antenna? Un'antenna non è una ciminiera, non ha sotto un opificio».
Mediobanca non si occupò del dossier. Banco di Roma ebbe anche un ruolo primario nel garantire le linee di credito che consentirono a Mediaset di arrivare alla successiva quotazione e in questo fu affiancato dal Monte dei Paschi di Siena, allora la banca più legata al Partito Comunista Italiano, quanto di più distante dalle corde berlusconiane.
Scaricato da Agnelli
Anche Gianni Agnelli, che è stato uno dei più laici nel giudicare Berlusconi, favorendone anche la discesa in campo, non lo considerò mai un suo pari. Memorabile la frase con cui lo accompagnò all’elezione del 1994. «Se vince – disse l’allora numero uno della Fiat – avrà vinto un imprenditore, altrimenti avrà perso Berlusconi».
Agnelli, tra l’altro, sbaglio clamorosamente le sue previsioni sulla discesa in campo del «Cavaliere» preconizzando, nel 1994, che «avrebbe preso il 3% dei voti». Di questo Berlusconi si vendicò, anni dopo, facendo fare una lunga anticamera a Umberto Agnelli e a tutto il top management Fiat quando si recarono ad Arcore per esporre la crisi del gruppo all’allora presidente del Consiglio.