Con il perfezionamento della fusione fra UBS e Credit Suisse l’azionista di quest’ultima entra a far parte delle categorie della storia, come gli investitori in tulipani del XVII secolo o i soci dei Lehman Brothers del XXI, anche se la geremiade di causa intentate dai tanti stakeholders che si sono sentiti defraudati dalla fine del loro investimento continueranno a rendere vivo il ricordo almeno nel prossimo futuro.

Dell'inviato Giuseppe Failla, pubblicista ed esperto economico di finewsticino.ch

Se certamente non è passato abbastanza tempo perché si possa dare un giudizio definitivo e distaccato sulla vicenda, ne è passato a sufficienza per tracciare una mappa maggiori dei soci dei Credit Suisse, poco prima della fine della banca lo scorso 19 marzo.

I soci maggiormente rilevanti, con quote che vanno da un massimo del 9,88% di Saudi National Commercial Bank, a un minimo dello 0,04% di 1st Fund Managers/Switzerland erano 40. In realtà sarebbero stati 41 ma si sarebbe dovuta conteggiare anche la quota di azioni proprie detenuta dal Credit Suisse, pari al 2,31%, ma avrebbe avuto caso.

Logiche geopolitiche

Tracciare una mappa di quelli che erano i soci al momento del crollo può aiutare a comprendere quali possano essere stati i motivi, geopolitici prima ancora che finanziari, ad avere indotto le autorità elvetiche a stravolgere le norme che regolano i bail-out bancari nelle economie occidentali, preferendo salvare il 25% dei soci azionisti con il totale sacrificio dei portatori di obbligazioni AT1.

La normalità avrebbe previsto prima l’azzeramento delle azioni, che sono capitale di rischio per definizione, per poi passare alle obbligazioni Additional Tier 1 (AT1) che sono la seconda categoria di strumenti finanziari il cui valore viene azzerato in fase di dissesto.

Nessun italiano o spagnolo coinvolto

Prima di tracciare l’identikit di chi era maggiormente presente fra i soci, si nota una chiara assenza geografica fra i soggetti coinvolti.
Tra i maggiori soci di Credit Suisse non ci sono azionisti dell’Europa del Sud, nessun azionista italiano, nessun azionista spagnolo e meno che mai nessun socio greco.

Non c’è ovviamente un motivo razionale per spiegare questa mancanza. Piace pensare che a quelle latitudini sono ancora molto fresche le cicatrici lasciate da tragedie bancario locali per indurre a investire in istituti di credito interessati da recenti scandali e che sono state troppo spesso sulle cronache finanziarie per vicende non sempre commendevoli.

E’ stata coinvolta, ma solo marginalmente, la Francia che vede Credit Agricole e Natixis nell’elenco dei 40.

Golfo Persico «Uber alles»

Volendo invece iniziare a tracciare la provenienza geografica da cui arrivano la maggior parte dei maggiori soci di Credit Suisse al momento del crollo, non si può non partire dal Golfo Persico che occupa le prime due posizioni del podio e anche il quinto posto.

Sono sauditi i soci alla prima e quinta posizione, rispettivamente Saudia National Commercial Bank e Olayan Group rispettivamente con il 9,88% e con il 3,27% del capitale. Al secondo posto troviamo il Qatar Investment Authority con il 6,8%.

Usa molto coinvolti

Se i tre soci mediorientali, mutuando una metafora rugbista, hanno agito come un pacchetto di mischia per portare a più miti consigli le autorità elvetiche, anche il terzo e quarto socio assoluto, BlackRock e Dodge Cox godono di una forza e di una reputazione che non consiglia lo scontro.

La pattuglia degli azionisti statunitensi è ampiamente la più numerosa, 14 su 40, seguita molto da lontano dagli svizzeri che sono solo sette. Tra questi, paradossalmente, c’è anche UBS che aveva in portafoglio poco meno del 2% del capitale della sua ormai ex rivale.

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Seguire i soldi è sempre il modo migliore per comprendere logiche e strategie. E questo caso non sembra fare eccezione.