La cessione della quota di Banca Profilo ai francesi di Twenty First Capital, società di gestione francese portfolio manager di Fonds Archimedes, e il conseguente scioglimento del fondo Sator, segnano la fine della carriera di banchiere di Matteo Arpe.
Si tratta di un percorso che persone vicine al manager danno come irreversibile, tanto che oggi il suo orizzonte è occupato integralmente dalla sua start-up fintech. Ed è un peccato anche perché molto del panorama bancario europeo ed italiano dipende dalle scelte che Matteo Arpe ha fatto, e da quelle che non ha fatto, quando era banchiere.
Bocconiano, classe 1964, entra in Mediobanca a 23 anni e in breve tempo viene promosso direttore centrale. Pupillo di Enrico Cuccia, è lui a organizzare la parte finanziaria dell’operazione più audace che si sia mai vista in Italia l'Opa lanciata da due semisconosciuti, Roberto Colaninno ed Emilio Gnutti su Telecom Italia.
Il calvinismo di Maranghi
Leggenda vuole che i festeggiamenti per la riuscita dell'operazione si tennero proprio nello studio di Arpe e uno dei tappi delle bottiglie di champagne stappate per l’occasione cadde su un capannello di giornalisti che attendevano davanti alla sede di Mediobanca. La sua uscita, nel 2000, secondo quanto si racconta, fu causata dalla richiesta di una promozione (e di un aumento) ritenuta inaccettabile dall’allora amministratore delegato Vincenzo Maranghi.
Va detto che il calvinismo di Maranghi non era riservato solo ai collaboratori. Quando nel 2003 ha lasciato Mediobanca dopo 18 anni di servizio ha preteso di non ricevere alcuna buonuscita.
Passaggio in Lehman
Prima di approdare alla corte di Cesare Geronzi in Capitalia, Arpe ha fatto un passaggio in Lehman Brothers diventando responsabile dell'attività strategic equity in Europa, una struttura che venne creata su misura per l' ingresso di Arpe, con l'idea che il banchiere italiano potesse far raggiungere al settore investment banking una posizione particolarmente competitiva.
Matematico prima ancora che banchiere, Arpe ama e studia i numeri primi. Sul lavoro è un capo presente ma esigentissimo, pignolo al limite del parossismo. E' un negoziatore abilissimo e di una durezza quasi brutale che chiude le trattative pronunciando la frase «game over». Il suo dna mediobanchesco fa si che
nessuno, neanche i suoi piu' stretti collaboratori, conosca le sue idee politiche.
Risana e fa volare Capitalia
Da quando, nel 2001, è arrivato in Capitalia alla sua uscita, nel maggio del 2007, la capitalizzazione della banca romana è passata da 2 a 20 miliardi di euro. Nei primi tempi i rapporti con Geronzi sono ottimi al punto che lo chiama ‹Il bastone dell’aria vecchiaia› più di un’occasione.
Peggiorano notevolmente fra il 2006 e il 2007. Nel 2006 Arpe stronca le ambizioni di Giovanni Bazoli e Corrado Passera, presidente e amministratore delegato di Banca Intesa, che volevano il matrimonio con Capitalia e Banca intesa.
Blocca Bazoli e Passera
Il fuoco di sbarramento di Arpe è violentissimo e culmina col superamento di Capitalia della soglia del 2% nel capitale di intesa una mossa che, in virtù della legge sulle partecipazioni incrociate, rende di fatto impossibile ogni mossa di Intesa su Capitalia che non fosse un’Opa, opzione assi costosa che i banchieri milanesi non volevano intraprendere.
Arpe aveva il potere di spesa per decidere l’acquisto senza passare dal Cda. La notizia arrivò un venerdì sera del marzo del 2006. Secondo indiscrezioni mai smentite Geronzi venne a sapere della notizia mentre si trovava nella sede milanese di Intesa a colloquio con Bazoli. con quella mossa si fece due nemici potentissimi e, di fatto, terra bruciata nel mondo bancario italiano.
No a fusione Capitalia Abn
E iniziò una fase di minore lucidità che gli fece compiere un errore di valutazione. Nel 2007, poco prima che la fusione con Unicredit fosse messa in cantiere, gli uomini di Abn Amro, primo socio di Capitalia, proposero ad Arpe la fusione di Capitalia in Abn.
Il momento era delicato visto che Geronzi aveva subito una sospensione giudiziaria dalle cariche. Se avesse accettato Arpe avrebbe avuto il comando della nuova banca con l'obiettivo di risanarla prima che, come puntualmente accaduto, divenisse preda di appetiti esterni.
L'operazione nel lungo periodo avrebbe potuto trasformarsi in una fusione inversa nella misura in cui la banca olandese, una volta risanata, avrebbe avuto una preponderante anima italiana. Ma disse no. Capitalia andò sposa a Unicredit ai valori che voleva Arpe.